AMERICANAH

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Laura Bladino è insegnante di storia dell’arte in un liceo piemontese. Ha una passione per l’arte statunitense che fatica a tenere a bada. Lettrice vorace, socia del Bookpostino, si appresta a entrare nel vasto e variegato mondo delle e dei blogger. Il suo blog si chiamerà (forse) “Americanah” e si occuperà ovviamente di “arte negli USA”. Oggi ci ha regalato la sua prima recensione. Noi, onorati, ve la presentiamo.

Quest’ultimo periodo è stato ad alto tasso di letture americane: complice la pandemia e con la prospettiva dei viaggi intercontinentali azzerata ancora per qualche tempo, ho provato a evadere almeno con la fantasia, con l’indubbio vantaggio del fattore economico e affascinata invece dalla possibilità, che ogni avido lettore conosce bene, di poter addirittura viaggiare nel tempo: sì, perché come direbbero gli anglofoni, le mie letture mi hanno portato far and wide ad attraversare il continente in epoche anche molto lontane tra loro.

Cos’hanno in comune le quattro letture di cui mi accingo a parlare? Sicuramente l’indiscutibile merito di non mostrare la tradizionale immagine patinata degli Stati Uniti da cui noi europei siamo così affascinati – forse perché è una proiezione delle nostre aspettative in materia – ma di offrire invece un’immagine ben più ruvida, dolente e autentica di quel paese dalle sconfinate praterie, dal mito dell’economia che cade sempre in piedi e dalle mille contraddizioni, molto spesso nascoste sotto un elegante tappeto.

Si tratta di quattro opere, tre romanzi e una non-fiction, scritte da Bill Bryson, Charles Willeford, Richard Ford e Jessica Bruder, tutte personalità molto diverse tra loro: due romanzieri (Ford e Willeford) e due giornalisti, (Bryson e Bruder) che firmano rispettivamente un classico pulp (Tempi d’oro per i morti), un romanzo di formazione nella tradizione picaresca di Saul Bellow e Joe Lansdale (Canada), un diario di un viaggio on the road  sospeso tra ricordi, nostalgia e riconciliazione con la realtà (America perduta) e una durissima inchiesta sulle frontiere della nuova povertà (Nomadland).

Charles Willeford, idolo dei fratelli Coen, una vita avventurosa degna di figurare in un romanzo a parte, sa raccontare Miami come pochi altri: non la città dalle lunghissime spiagge diventata la meta favorita di calciatori e vallette alla ricerca di una fuga al sole o di springbreakers desiderosi di porre fine ai lunghi e gelidi inverni, ma una metropoli in crescita piena di violenza, contraddizioni e mossa dal desiderio dell’arricchimento; un calderone di etnie e di esperienze diverse, dal quale emergono le figure scombinate, imperdibili e ironiche del detective politicamente scorretto Hoke Moseley e della sua assistente Ellita Sanchez, cubana e unica donna in un dipartimento di polizia ancora a forte prevalenza maschile. 

Richard Ford traccia un affresco di un’ America altrettanto desolata, quel Montana terra di confine con il Canada dove, negli anni Sessanta, si infrangono le speranze del giovane protagonista che vede la sua famiglia lanciarsi in un’improvvisata impresa criminale che ne condizionerà l’esistenza futura, lasciandolo da solo in balia di un destino che sembra inesorabile come quei venti feroci che spazzano le pianure da quelle parti e che lo allontana dalla promessa della villetta unifamiliare con l’auto lucida e il prato perfettamente in ordine.

Quell’ America e quell’immagine di quieta provincia sono le stesse da cui Bill Bryson si è allontanato per trasferirsi nella vecchia Inghilterra, per poi tornare nel 1986 per compiere un viaggio nel pieno dell’atmosfera reaganiana e del capitalismo ad ogni costo. Un viaggio sul filo dei ricordi, che ripercorre quelli dell’infanzia quando, insieme alla famiglia, ogni estate partiva dal natio Iowa e che lo portano a riscoprire con occhi nuovi, distaccati, talvolta caricaturalmente cinici le strade già percorse. In alcuni tratti l’ironia amara che lo contraddistingue si trasforma però in una satira che, se da un lato sembra voler strizzare l’occhio all’europeo smaliziato che è diventato, talvolta finisce con l’infastidire: insomma, se davvero è tutto così orribile, vacuo, superficiale, kitsch, perché scrivere oltre trecento pagine di compiaciuta presa di distanza da tutto ciò?

Di tutt’altro tenore è invece il libro-inchiesta di Jessica Bruder, tradotto e pubblicato per gli interessanti tipi di Clichy, che racconta il volto di un’America invisibile, diventato celebre prodotto Netflix premiato agli ultimi Golden Globes: quella di chi ha rinunciato a un’abitazione stabile, soprattutto a seguito della terribile crisi dell’immobiliare del 2008, ha venduto quei pochi averi che ancora possedeva per acquistare un van o un camper e trasformarsi nei protagonisti di un nuovo viaggio sulle strade del continente per inseguire impieghi stagionali senza alcuna garanzia o prospettiva. Un oggettivo pugno nello stomaco che spinge a riflettere, specialmente dopo gli ultimi roboanti anni di retorica al suono di “make America great again”, sul prezzo che quella grandezza ha richiesto ai suoi cittadini. 

Laura Blandino