LA BAMBINA DI KIEV

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Ci sono libri che riescono a entrare nelle pieghe e nelle piaghe della storia più di altri. La bambina di Kiev, scritto da Luca Crippa e Maurizio Onnis per Pienogiorno Editore, è uno di questi. È uscito da poche settimane in Italia e in contemporanea in mezza Europa. Nello specifico: Francia, Portogallo, Spagna, Polonia e Finlandia.

C’è poco da fare: la geopolitica sarà anche lo strumento con il quale possiamo cercare di comprendere cause, ragioni, origini, possibili sviluppi di un conflitto, ma per comprendere davvero cosa vuol dire vivere (e morire) sotto le bombe, l’unica voce che conta è quella di chi da quelle bombe cerca di fuggire. Il conflitto in corso in Europa non sfugge alla regola.

Quella voce la raccontano bene ogni giorno i tanti (spesso bravissimi) inviati di guerra che da mesi lavorano in Ucraina usando il tono crudo della cronaca. La raccontano altrettanto bene anche Luca Crippa e Maurizio Onnis, prendendo una storia vera e costruendole attorno un drama che lascia pochissimo spazio alla finzione.

La storia è quella di Alina, 10 anni, che con mamma, papà, nonno e gatto, il 24 febbraio viene svegliata dalle bombe e in poche ore deve darsi alla fuga con la famiglia cercando riparo a ovest, più lontano possibile dal raggio d’azione dell’artiglieria dei russi.

La bambina di Kiev” oggi vive a Milano, non si chiama Alina, ma sta bene, convive con i suoi ricordi, le sue paure, ma vuole tornare in Ucraina. Non adesso, non ancora, ma Kiev rimane “casa”, il luogo nel quale fare ritorno.

Quella di Alina è anche l’odissea di 7 milioni di persone che dall’est dell’Ucraina hanno cercato, fin dai primi giorni di guerra, di raggiungere (soprattutto) Leopoli e poi il vicino confine polacco. Un viaggio che è molto più simile a una dolorosa via crucis: un fiume di donne, bambini e vecchi (gli uomini si sono fermati tutti, con le buone o con le cattive, a combattere) bersaglio del freddo, della fame, della stanchezza, delle bombe.

Questo libro va letto per renderci edotti su cosa potrebbe succedere a ciascuno di noi in condizioni simili. Sgombriamo il campo da una grande ipocrisia: chi scappa da Kiev (dopo magari avere parcheggio la sua Yaris davanti casa, con un baule pieno della spesa appena fatta da Carrefour, prima di andare al cinema e, perchè no, un salto al MacDonald) è identico a noi. Siamo noi, potremmo essere noi.

Provo a spiegarmi. Per esempio “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini è un capolavoro assoluto, che strappa lacrime vere a qualunque lettore ed ha il pregio di catapultarci in un mondo a noi ignoto e lontano non solo geograficamente. Per quanto Amir, il giovane protagonista di Hosseini ci possa conquistare, lui non assomiglia nè a nostro figlio, nè a nostro nipote. Amir è vittima (anche) di un meccanismo sociale del quale ignoriamo le fondamenta. E non potrebbe essere diverso: osserviamo da una distanza di sicurezza incolmabile.

Alina, invece, potrebbe essere tranquillamente nostra figlia o nipote, che torna da scuola, posa lo zaino, accende lo smartphone e va a scrollare i video su Tik Tok. Una scena che nelle nostre case si ripete quotidianamente. In questo risiede, secondo me, la vera forza del libro di Crippa e Onnis.

E c’è un di più: “La bambina di Kiev” è un’opportunità per il lettore sufficientemente lontano dal fronte di comprendere cosa nasconda davvero il sostantivo femminile singolare “guerra”.